13 febbraio 2025

MELT e SO: il viaggio di Peter Gabriel dalla sperimentazione al trionfo

Da MELT a SO, Peter Gabriel reinventa il suo sound, passando dalla sperimentazione più audace alla vetta delle classifiche senza rinunciare alla qualità.

Nato il 13 febbraio 1950, Peter Gabriel è l’esempio perfetto di un artista che non ha mai smesso di evolversi. Dopo aver rivoluzionato il progressive con i Genesis e aver ridefinito i confini dell’art rock con la sua carriera solista, arriva alla metà degli anni ’80 con un’intuizione decisiva: far dialogare la sua anima sperimentale con un pop rock raffinato e accessibile, senza sacrificare un millimetro della sua ricerca sonora.

Il percorso che lo porta da PETER GABRIEL 3: MELT (1980) a SO (1986) è un viaggio incredibile, fatto di scelte coraggiose, collaborazioni straordinarie, l'apertura alla world music e una visione artistica che segnerà per sempre la musica.

MELT e SO: il viaggio di Peter Gabriel dalla sperimentazione al trionfo

PETER GABRIEL 3: MELT

Già dai Genesis, l’approccio alla musica di Peter Gabriel era profondamente ambizioso: far fiorire le canzoni al di fuori delle strutture convenzionali in cui erano ingabbiate, superando la rigidità della forma strofa-ritornello e la convenzionalità degli strumenti tradizionali (batteria, basso e chitarra elettrica). Persino il modo di eseguire i pezzi dal vivo doveva acquisire una profondità artistica inedita, con Gabriel che, tra trucco e costumi, si trasformava sul palco, proclamando parti recitate in apertura ai brani. Un modo di intendere la musica perfettamente in linea con le coordinate del progressive rock, genere di cui i Genesis erano tra i principali riferimenti, ma che Gabriel voleva modellare secondo una visione personale. L’intento del progressive era dare al rock una maggiore complessità e varietà stilistica – ritmica, compositiva, melodica e armonica – per conferirgli più spessore culturale e credibilità. Ma questa ricerca, spesso, andava a discapito della fruibilità delle canzoni, che diventavano affascinanti ma ostiche. È qui che, una volta sganciatosi dai Genesis, Gabriel si spende per esprimere la sua visione di art rock, un approccio che, pur restando ancorato alla ricerca e alla sperimentazione, non sacrificasse la genuinità e la naturalezza delle canzoni. Osa con eclettismo, con l’uso disinibito di ogni strumento alternativo a quelli canonici del rock, facendo convivere le più moderne opportunità offerte da sintetizzatori, tastiere ed elettronica con violini, mandolini, archi e flauti.

 

Scelte coraggiose e anti rock

La voglia di sperimentare si riflette anche in scelte coraggiose, irriverenti rispetto all’iconografia del rock, visto che Gabriel bandisce due degli aspetti sonori più caratterizzanti del genere: i piatti della batteria e gli assoli di chitarra. Il risultato è un rock cerebrale, così elegante da sembrare algido e oscuro, ma non per questo meno intrigante. Tutto questo è perfettamente testimoniato nel suo terzo album solista, PETER GABRIEL 3: MELT, un lavoro eccezionale, permeato della stessa raffinatezza e disinvoltura della miglior new wave. L’album è impreziosito da un cast di musicisti stellari: la produzione stilosa di Steve Lillywhite (che nello stesso anno confeziona BOY, clamoroso debutto degli U2), i cori evocativi di Kate Bush, la batteria innovativa di Phil Collins, Tony Levin al basso e una parata di chitarristi d’eccezione: Robert Fripp (King Crimson), Dave Gregory (XTC), Paul Weller (The Jam, The Style Council) e David Rhodes.

 

SO

Ma l’audacia musicale di Peter Gabriel non si arresta, grazie a un’intuizione geniale: contaminare il pop e il rock con suoni, strumenti e coordinate della musica etnica e tradizionale, attingendo soprattutto alle sonorità africane e brasiliane. Il suo art rock si fonde con la world music, un connubio destinato a prosperare nel suo quinto album solista, SO (1986), capolavoro del cantante e suo maggior successo commerciale. L’album nasce da una visione vincente già in fase di produzione. Gabriel aveva davanti un trittico di produttori eccezionali tra cui scegliere, ognuno capace di portare la sua musica in una direzione ben precisa. Avrebbe potuto affidarsi a Nile Rodgers degli Chic, reduce dal successo di LET'S DANCE (1983) di David Bowie, che però avrebbe probabilmente spinto il disco su lidi troppo funk e smaccatamente commerciali. Oppure a Bill Laswell, produttore creativo ed estroso che di lì a poco avrebbe firmato ALBUM, uno dei lavori più riusciti dell’ex cantante dei Sex Pistols, John Lydon. Ma Laswell, con il suo approccio sperimentale e imprevedibile, rischiava di riportare Gabriel verso quell’eccentricità e complessità da cui il cantante voleva emanciparsi.

Daniel Lanois: un architetto del suono

La scelta ricade invece su Daniel Lanois, pupillo di Brian Eno e architetto del suono etereo, malinconico ed elegantissimo degli U2, sia nell’astratto e visionario THE UNFORGETTABLE FIRE (1984), sia nella pietra miliare THE JOSHUA TREE (1987). Lanois incanala la visione di Gabriel in un suono incredibile, in cui la modernità elettrica del rock si fonde con il calore, le dinamiche e i chiaroscuri delle sonorità etniche e acustiche con cui Gabriel sperimenta. Un equilibrio perfetto che diventerà uno dei tratti più affascinanti del disco, capace di stupire per la sua profondità, dinamica e multi dimensionalità sonora. I musicisti coinvolti in SO basterebbero a riempire una mezza enciclopedia del rock. Laswell e Rodgers, scartati come produttori, vengono comunque arruolati rispettivamente al basso e alla chitarra. C’è poi il violino elettrico di L. Shankar, artista straordinario che aveva già collaborato con Frank Zappa e John McLaughlin. Ci sono i cori di Jim Kerr dei Simple Minds e la performance devastante di Kate Bush in “Don’t Give Up”, uno dei brani più intensi dell’album, che in un’acre denuncia sociale tocca in modo straziante il tema della disoccupazione. Diventerà un pezzo iconico degli anni ’80.

 

Il virtuoso del charleston

E poi c’è il contributo spettacolare di Stewart Copeland dei Police. Per Gabriel l’imperativo era sempre lo stesso: non lasciare che la musica fosse soffocata da schemi rigidi e pattern prevedibili. Così, proprio lui, che nei precedenti lavori aveva deciso di zittire i piatti della batteria, sceglie di aprire SO con un brioso balletto di charleston che introduce “Red Rain”. E chi meglio di Copeland, autentico virtuoso del charleston (il piatto a pedale della batteria che può essere suonato sia chiuso che aperto, creando ritmi incisivi e dinamici), per interpretare questa idea? È proprio sul charleston che Copeland ha costruito alcuni degli incedere più riconoscibili dei Police, come “Walking On The Moon” e “Bring On The Night”... A rendere il groove dell’album ancora più unico ci pensa Manu Katché, batterista capace di dare alla musica di Gabriel un incedere potente ma sempre leggero ed elegante, perfetto nell’armonizzarsi con i tanti inserti di elettronica. Katché, che in quegli anni suonerà anche con Sting, Dire Straits e Tori Amos, porta al disco un groove raffinato e fluido, dinamico senza mai risultare ingombrante. Ma il vero protagonista del suono di questo album è il basso di Tony Levin. Un musicista che, per estro e creatività, è un virtuoso almeno quanto lo è nel suo stesso strumento. Bassista dei King Crimson e da sempre al fianco di Peter Gabriel, con questo disco si consacra definitivamente come uno dei musicisti più autorevoli del pianeta, tra i pochi con collaborazioni inverosimili che spaziano tra Pink Floyd, John Lennon, Dire Straits, Liquid Tension Experiment(LEGGI LA STORIA DEI BASSI INCREDIBILI SUONATI DA TONY LEVIN SU "SO")

 

Di nuovo assieme

SO è un trionfo assoluto: vende milioni di copie, sforna singoli epocali come “Sledgehammer”, “Big Time” e “Don’t Give Up”, e porta Gabriel ai vertici delle classifiche mondiali. L'ironia della sorte vuole che, nel 1986, si ritrovi di nuovo fianco a fianco con l’ex compagno  Phil Collins e i Genesis. “Sledgehammer” infatti, spodesterà dal primo posto il singolo “Invisible Touch” dall'omonimo album del 1986 dei Genesis. Testimonianza perfetta di come entrambi, Peter Gabriel da solista e Phil Collins ancora in seno ai Genesis, abbiamo saputo non solo continuare ad evolvere nell'identità artistica ma raggiungere anche un successo assoluto.