“BLOODFLOWERS”: l’abito forzato dell’addio mancato dei Cure

“BLOODFLOWERS” dei Cure: tra il desiderio di addio di Robert Smith e un suono forzato, un disco sospeso tra ispirazione autentica e compromesso stilistico.

Il 14 febbraio 2000 usciva BLOODFLOWERS, l’undicesimo album in studio dei Cure, e oggi, a distanza di 25 anni, vale la pena riscoprirlo con uno sguardo critico. Con questo album, i Cure inseguono il loro addio perfetto, ma inciampano in un suono che oscilla tra ambizione e incertezza. Un’opera sospesa tra l’eco della loro anima più oscura e il peso di un’epoca che non gli appartiene.

Per questo, BLOODFLOWERS rappresenta un capitolo controverso nella carriera della band, segnato da tensioni creative di Robert Smith e da uno scontro tra l’identità sonora dark e new wave dei Cure - profondamente radicata negli anni '80 del post punk - e il panorama rock e alternative di inizio millennio.

“BLOODFLOWERS”: l’abito forzato dell’addio mancato dei Cure

In bilico tra due identità

Robert Smith compone BLOODFLOWERS animato dal desiderio di chiudere il percorso dei Cure, spinto da un’esigenza interiore che lo portava a immaginare un futuro solista. In realtà, Smith avrebbe voluto concludere la storia della band già con WILD MOOD SWINGS (1996), ma l’insuccesso critico e l’accoglienza tiepida dell’album, riconosciuto come poco ispirato, lo convinsero che non poteva essere quello l’epilogo. Serviva un addio all’altezza della storia dei Cure, e BLOODFLOWERS avrebbe dovuto essere il testamento emotivo e artistico della band. BLOODFLOWERS si colloca però in uno spazio sonoro che appare in bilico tra due identità: quella intima, oscura e stratificata tipica della new wave degli anni '80, e quella più acustica e alternative, allora dominante nella scena rock. Un compromesso che, già al momento dell'uscita, appariva forzato, privo della naturalezza e dell'autenticità che hanno sempre caratterizzato i Cure. Il risultato è un disco che, come un abito indossato solo perché alla moda, non riesce a calzare a pennello. Nei suoni, negli arrangiamenti e nella produzione si avverte l’effetto di una ricerca stilistica condizionata dal desiderio di adeguarsi alle tendenze del tempo, piuttosto che da un'urgenza artistica autentica.

 

Songwriting ispirato e malinconico

Questo tentativo di 'vestire' i suoni del nuovo 2000, così lontani dalla matrice sonora dei Cure, ha reso BLOODFLOWERS un album che, riascoltato oggi, appare invecchiato precocemente. Le chitarre, i bassi e le tastiere si muovono su soluzioni di arrangiamento che richiamano più un pop compiacente alla Lene Marlin che la profondità algida di tracce iconiche dei Cure come "Prayers for Rain" o "A Short Term Effect". Gli inserti elettronici, dal canto loro, ricordano atmosfere alla Dido, distanti anni luce dalla poesia eterea di gemme come "Pictures of You". E, forse più di tutto, stona il groove sincopato di brani come "Maybe Someday", così spudoratamente britpop, che sembra quasi un gioco di rimandi al "Definitely Maybe" degli Oasis. Eppure, tra queste contraddizioni, emerge con forza la tensione espressiva del disco. Il songwriting ispirato e malinconico, resta saldo nel solco tracciato dai Cure migliori. Robert Smith, ispirandosi dichiaratamente a capolavori come PORNOGRAPHY (1982) e DISINTEGRATION (1988), fa di BLOODFLOWERS l’ultimo capitolo di quella che lui stesso ha definito la "trilogia dark”. Tra tutte le canzoni, spicca la struggente "There Is No If" una ballata che distilla l’anima più vulnerabile della band. È proprio questo legame con la loro essenza più profonda a salvare BLOODFLOWERS che - come un abito forse fuori misura, ma indossato con la sincerità di chi non smette di essere se stesso - resta un disco vibrante che emoziona.

Tags