La “condanna” all’eternità sul palco per i Rolling Stones
A Lucca Mick e Keith infiammano la notte con il blues. E il miglior rock del secolo scorso
Sono coetanei di quei bizzosi vecchietti che non la mandano a dire, mentre giocano a briscola nei bar di Lucca, sacramentando a tutto spiano per una carta sbagliata. Il balocco di Mick e Keith è però un altro: il blues, la fonte originaria da cui è scaturito il miglior rock del secolo scorso. Quello che a un certo punto delle cose aveva davvero cambiato il mondo, e che oggi, ascoltato dal vivo, appare più come un omaggio ai cari tempi andati che non una provocatoria manifestazione di attualità. Ad analizzare la composizione anagrafica dei 56mila fans che hanno acclamato i loro beniamini sotto le Mura Storiche della città toscana si scopre che i giovanissimi sono merce rara, e che la vera impresa sarà tramandare a loro, ai Millennials, il meraviglioso lascito di una musica che spacca in due il pianeta, diversamente dall’effimero pop e rap con cui questi ragazzi amano rincoglionirsi, nell’inquietante solitudine delle loro cuffiette. Jagger e Richards sono gli ultimi epigoni di quei Favolosi Sixties in cui tutto sembrava possibile, nel segno dell’incoscienza, dell’audacia creativa e del rischio personale. Eccoli lì, ultrasettantenni suonati, condannati a riproporre da qui all’eternità il proprio impareggiabile repertorio, in una liturgia profana dove la missione è non far finire per davvero gli anni Sessanta e il loro spirito. Poco conta che Mick sia adesso tutto meno che un agitatore di popoli: semmai, è un colto, aristocratico gentleman che nelle sue ore fiorentine è andato ad ammirare il David di Michelangelo (così come, curiosamente, aveva fatto anche Steven Tyler degli Aerosmith: i narcisi del rock invecchiano, quelli di marmo mai), facendo sapere di aver incontrato Theresa May e di aver gustato un delizioso gelato a Ponte Vecchio. Jagger, lo smagato satiro che al pubblico lucchese concede una giocosa fuga dal galateo con un po’ di turpiloquio in italiano e in vernacolo toscano (“Eccheccazzo!”, “Ganzissimo!”), tra una canzone e l’altra della scaletta, e che stona nella versione tricolore di “As Tears Go By”: “Con le mie lacrime”, già proposta a San Siro una decina di anni fa, suona comica come tutte le volte che una band inglese rimpasta una cover per gli aficionados del Belpaese. Ma il blues, quello sì esce bene dalla linguaccia di Mick, come ha dimostrato l’ultimo album “Blue & Lonesome”: due pezzi in tutta la scaletta, “Just Your Fool” e “Ride ‘em On Down”, ma bastano per far capire come da questi scarni accordi, sospetti di maledizione diabolica, sia partita mille anni fa l’avventura degli Stones. E come non provare empatia per Keith il Pirata, il Sopravvissuto a ogni eccesso e a ogni insidia, che appena nato si vide recapitare dal cielo una bomba nazista sulla propria culla (per fortuna mamma Richards l’aveva messo in salvo poco prima)? Se non riesce ad ammazzarti Hitler, potrà mai farlo una vita frullata tra sesso droga e rock’n’roll? Figuriamoci. Keith grida allegro sul palco “Alla faccia di chi ci vuole male!”, anche lui in Italiano, e grattugia tutti i suoi riff più celebri con quel routinario distacco dalle cose che poi torna a essere divertimento, perché ne hai vissute di ogni sorta e in fondo è bello stare ancora qui a cazzeggiare con gli amici, soprattutto a questa età. Da “Sympathy For The Devil” al finale caotico di “Satisfaction” non manca niente dei classici del repertorio Stones, ma il climax della serata non viene dalle pennate sulla chitarra di Keith, bensì dall’assolo di Ron Wood su “You Can’t Always Get What You Want”, che da solo fa dimenticare il vecchio arrangiamento coral-orchestrale in nome di una benedetta sobrietà. Lavorare per sottrazione sui suoni, del resto, è la vera missione di questo “No Filter Tour”: le solite folle oceaniche, perfezione tecnica per il lato visuale, amplificazione (quasi) sempre all’altezza delle aspettative. La novità è un sound disincarnato, spogliato, da fumoso club le cui pareti siano state abbattute per far posto a tutti. Per ricordare che il segreto del rock-blues non è il patto con il Diavolo, ma il sortilegio spontaneo di quelle poche note ruvide, così ammalianti, che inseguono il mistero delle pause, delle reticenze, degli indizi proposti da chi canta e suona questa roba, e di quanto viene appena suggerito, evocato, materializzato dentro una musica che ha saputo travolgere ogni ordine costituito, tanto tempo fa. E che sarà necessario lasciare in eredità a ogni costo - allo sfinimento - ai Millennials distratti, perché non vada perduta.